Nei giorni scorsi UNAMSI e Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive Sapienza Università di Roma hanno pubblicato il position paper “Infodemia”, un decalogo per il giornalismo medico scientifico connotato da standard di qualità. Il documento,oltre ad individuare i punti cardine sui quali si deve ancorare il lavoro di un giornalista scientifico; non vuole stabilire delle regole ma invitare alla riflessione e ad un impegno responsabile per la comunicazione di temi che influiscono in modo determinante sulle scelte dei lettori, sui loro comportamenti, sulle loro speranze.
Il primo punto del decalogo recita “la divulgazione della scienza, in particolare quando si affrontano temi medici e sanitari, richiede l’adozione dei più alti standard qualitativi del giornalismo perché le informazioni veicolate sui media possono avere un impatto significativo sui comportamenti della popolazione”. È questa la considerazione centrale del decalogo che ha radici nell’esigenza, non solo dell’informazione scientifica, di avere sempre presente il valore della responsabilità da parte di chi dialoga con il largo pubblico.Questa attenzione è ancor più acuita dal fenomeno delle fake news che sono divenute e utilizzate come un’arma da fuoco elettronica. Il mondo dell’informazione si interroga su come arginare, comprendere questi fenomeni a volte rifugiandosi in comportamenti corporativi che non offrono strumenti e visioni per un settore in frenetica evoluzione.UNAMSI vuole essere,in coerenza con i propri principi fondanti, un soggetto attivo per l’elaborazione di modelli culturali e formativi che consentano ai giornalisti medico scientifici di essere portatori del principio dell’informazione basata sull’evidenza scientifica. Per approfondire la visione che viene proposta dal decalogo abbiamo chiesto l’opinione del presidente di UNAMSI Nicola Miglino, della Professoressa Michaela Liuccio del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie infettive Sapienza Università di Roma,di Massimo Barberi membro del Direttivo UNAMSI. Questi interventi offrono un contributo rilevante per l’approfondimento dei punti proposti dal decalogo e una proposta per aprire con tutti i soci UNAMSI una riflessione sul ruolo della professione.
“Le fonti per noi giornalisti sono tutto. Affidarsi a quelle più accreditate è un dovere morale quando si parla di salute”
Intervista a Nicola Miglino Presidente UNAMSI
Perché UNAMSI ha sentito il bisogno di stendere con il Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive un position paper in dieci punti su giornalismo scientifico e standard di qualità. È una dichiarazione dell’attuale inadeguatezza dell’informazione scientifica?
Più che altro un bisogno nato da quanto accaduto nei momenti caldi della pandemia Covid, con un diluvio di informazioni confuse e molto spesso errate e fuorvianti, senza alcuna base scientifica, create spesso in malafede o magari solo per far crescere gli ascolti o acchiappare qualche clic in più. Un richiamoalla preparazione di chi fa il nostro mestiere, anche sul fronte deontologico.
Come Presidente di UNAMSI e giornalista scientifico di lungo corso dove pensi sia necessario intervenire per migliorare e sostenere il lavoro dei giornalisti medico scientifici?
La nostra associazione punta da sempre alla formazione. Oggi siamo ente terzo formatore per conto dell’Odg e, come tale, in poco più di un anno abbiamo già realizzato 5 corsi, con circa 300 partecipanti e 14 crediti erogati. Come partner, abbiamo sempre scelto il mondo della ricerca e della clinica: solo l’interazione tra professionisti della salute e dell’informazione può aiutare entrambi i fronti a crescere.
L’infodemia è prodotta da diverse componenti, quali sono a tuo modo di vedere le più perniciose?
Innanzitutto, l’idea che la medicina possa sempre offrire risposte efficaci in tempi rapidi, in sincronia con la velocità dell’informazione. Non è così: la ricerca procede per piccoli passi, gli eventuali successi arrivano sempre dopo cadute e risalite e la cautela è sempre il comandamento principale da considerare quando se ne raccontano i progressi. Si chiama metodo scientifico, maturato in secoli di storia e che abbiamo l’obbligo di far conoscere sia a chi fa informazione sia a chi ci legge.
Oltre questo coraggioso decalogo, come UNAMSI continuerà il suo lavoro per migliorare quella che viene citata nel documento come deontologia “rinforzata”?
Le fonti per noi giornalisti sono tutto. Affidarsi a quelle più accreditate è un dovere morale, quando si parla di salute. Per questo, è sempre uno dei temi cardine dei nostri corsi, nei quali continueremo a ribadire due aspetti chiave del codice deontologico: mai creare false aspettative o lanciare inutili allarmismi. Infine, nel racconto dei progressi della ricerca, occhio a dati: puntare a quelli sperimentali ottenuti sull’uomo, perché quelli in vitro o sull’animale sono ben lontani dall’utilità pratica per chi ci legge, generalmente un paziente o qualcuno che gli è vicino.
“Ri-comunicare i temi della sanità pubblica,ri-conquistare la fiducia dei cittadini e ri-costruire una reale cittadinanza scientifica”
Intervista a Michaela Liuccio Ph.D, Direttore del Corso di Alta formazione in Omnichannel Communication in Lifescience, Vice Presidente del corso di Laurea Magistrale in Comunicazione scientifica biomedica, Referente Terza Missione del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive e della Facoltà di Farmacia e Medicina Sapienza – Università di Roma, Direttore della testata: http://www.chiediloqui.it/
Dottoressa Liuccio, recentemente, il Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive della Sapienza Università di Roma ha rilanciato il position paper “Infodemia” messo a punto con UNAMSI, Unione Nazionale Medico Scientifica d’Informazione. Si tratta di un documento che segna un punto fermo per la comunicazione scientifica nel nostro Paese. Perchéil suo dipartimento ha deciso di impegnarsi con UNAMSI su questo tema?
L’obiettivo principale del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive (DSPMI) è quello di offrire al mondo accademico e alla società civile un centro di studio e controllo di tutti i fattori che possono influire sullo stato di salute individuale e collettivo della popolazione. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un apporto di conoscenze derivanti da competenze professionali e specialistiche diverse, meglio se sviluppate e operanti secondo modalità di integrazione multidisciplinare, legate all’epidemiologia, alla prevenzione, alla programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e all’educazione sanitaria, e alle diagnosi di laboratorio delle malattie di origine microbica e parassitaria. Oggi le conquiste della medicina e della sanità hanno allungato le aspettative di vita e la qualità di vita dei pazienti, tuttavia sopravvivono notevoli differenze tra la popolazione in termini di distribuzione del livello di salute, di accesso ai servizi sanitari e di assistenza ricevuta. Differenze ancora più stridenti si ritrovano tra paesi ricchi e paesi poveri, che ci riguardano sempre più da vicino a causa degli intensi flussi migratori. A tutto ciò si sommano i problemi relativi allo studio e al controllo della contaminazione ambientale; alla lotta contro i vecchi e i nuovi agenti infettivi; al controllo delle conseguenze sociali e sanitarie delle patologie cronico-degenerative; alle nuove modalità di produzione e di utilizzo degli alimenti; alle nuove modalità di organizzazione e gestione dei servizi sanitari.
La salute pubblica può essere considerata la chiave di accesso dei profani per entrare nel mondo della scienza e della ricerca, poiché impatta più direttamente sul quotidiano e perché tutti ne hanno una percezione diretta. Gli individui e i movimenti collettivi chiedono raramente meno cure mediche e meno sanità pubblica, ed è molto difficile mettere in discussione l’espansione di azioni che promettono di migliorare lo stato di salute delle persone e la qualità della vita in modo sempre più efficace. In quest’ottica, la salute pubblica è la forma di mediazione più importante tra i cittadini, la scienza, e i saperi esperti più in generale. Ma la salute pubblica oltre ad essere strumento di mediazione è essa stessa “mediata”, in particolare dalla cloud mediatica. In quest’ottica è sempre più urgente creare una cassetta degli attrezzi condivisa, per gli esperti e per gli operatori della comunicazione, per ri-comunicare i temi della sanità pubblica, ri-conquistare la fiducia dei cittadini e ri-costruire una reale cittadinanza scientifica.
Come sottolinea il position paper, la pandemia ha messo a nudo le criticità del sistema informativo e, emergenza nell’emergenza, ci siamo dovuti confrontare con l’infodemia. Il sistema mediatico ha evidenziato carenze culturali e pochezza di linguaggio che hanno disorientato il largo pubblico. Come l’Accademia ha osservato questo fenomeno?
Le profonde trasformazioni culturali che caratterizzano la società post-moderna hanno interessato anche l’ambito della salute, con un rinnovato interesse da parte dei cittadini nel prendere parte alla gestione del proprio stato di benessere. Nell’attuale contesto di riferimento, il sapere biomedico contemporaneo ha accresciuto il suo potere in dimensioni tali da debordare rispetto alla salute e al corpo per sconfinare in una dimensione più squisitamente sociale, culturale ed oggi anche politica, come dimostrano le vicende dei vaccini, i trapianti, la terapia genica e la fecondazione artificiale. Dall’altro, la condizione postmoderna espone gli individui al dilemma della scelta e dell’assunzione delle responsabilità, dal momento che il progredire della civiltà ha generato il venir meno molte strutture, o sovra-strutture, normative e valoriali. I nuovi cittadini-pazienti-consumatori dispongono di molte fonti di informazione, e sono sempre meno fedeli all’idea della continuità e dell’unicità dell’assistenza medica e della cura, mettendo in crisi il modello paternalista del passato. L’enorme mole di informazioni di cui oggi l’umanità è in possesso grazie a Internet, se non correttamente gestita e analizzata, causa la creazione di spazi di disintermediazione all’interno dei quali il senso comune applicato alla scienza può provocare delle dinamiche di conflitto e il proliferare di fake news. Soprattutto durante i recenti tempi di emergenza sanitaria, la popolazione e stata sottoposta ad una valanga di informazioni spesso comunicate in maniera caotica, senza possedere i mezzi necessari per riuscire a discernere le notizie vere dalle fake news. Questa situazione è stata definita infodemia, ovvero la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficolta di individuare fonti affidabili”. Il rischio è poi diventato una costante delle società post-moderne. È venuta progressivamente meno la fede incondizionata nel progresso scientifico e nella medicina, mentre aumentano sfiducia, sospetto e paura, stigmatizzazioni, e l’OMS viene sempre più rappresentata come una agenzia di diffusione di politiche di marketing dell’industria farmaceutica. La società del rischio è segnata dai continui conflitti esistenti tra chi elabora le definizioni sul rischio (gli esperti) e chi ne fa uso (il pubblico dei laici). Ed è qui che si annida l’irrazionalità: un esempio eclatante è rappresentato dal fenomeno dei “no vax”. La questione non può certo essere spiegata ricorrendo semplicemente al deficit model e al dislivello esistente tra specialisti e grande pubblico. Il sapere laico è complesso non meno di quello esperto, comprendendo l’intersezione di più fattori valoriali, percettivi e strutturali. E in questo contesto i raggi d’azione del rapporto media, salute e sanità si aprono in un caleidoscopio di possibili strategie con relativi effetti e strumenti. La salute globale e la “one health” pongono nuove sfide alla salute pubblica. È evidente che la corretta informazione e comunicazione possono fare molto per costruire la health litercy dei cittadini, migliorando così salute pubblica e sanità nel suo complesso.
È importante non ripetere gli errori del passato. Come affrontare il tema della formazione per migliorare la cultura medico scientifica dei giornalisti?
È importante aumentare la cultura scientifica tra gli operatori dell’informazione, attraverso spazi formativi di stimolo e di confronto su temi scientifici ad alto interesse ed impatto sociale, con il coinvolgimento di realtà significative e nodali del mondo della comunicazione medico-scientifica. È necessario porre attenzione all’informazione/comunicazione/divulgazione di tutti questi fattori, è necessario ri-comunicare la salute pubblica, contemplando i margini di rischio, dubbio e incertezza propri della scienza medica. La stessa pandemia da Covid-19 ha reso palese la difficoltà della comunicazione in ambito sanitario e i danni di una comunicazione sbagliata. A tal fine seminari formativi, con un confronto reciproco tra esperti/ricercatori e professionisti della comunicazione/informazione/divulgazione, potrebbero non solo di migliorare la crescita professionale dei professionisti coinvolti, ma anche di favorire lo scambio e il dialogo tra due mondi spesso distanti per contenuti, metodi e finalità, ma che sono sempre più destinati a convergere per favorire l’avanzamento culturale per una reale salute pubblica, basata sulla consapevolezza di una concreta cittadinanza scientifica: quello dell’informazione/comunicazione/divulgazione medico– scientifica e quello degli esperti in ambito medico-scientifico. Tutto questo nell’ottica che lo scambio e il dialogo per definizione si devono basare sul rispetto dell’alterità, senza annullare l’asimmetria che permane e va valorizzata negli sguardi diversi ad un unico obiettivo comune. Il fine ultimo è di migliorare, direttamente e indirettamente, l’empowerment dei cittadini e dei pazienti, le opportunità di accesso alla conoscenza scientifica, la salute e il benessere collettivo.
Il linguaggio da adottare nella comunicazione scientifica per essere rigorosi ma comprensibili è un aspetto che in molti casi si scontra con la visione dello scienziato o del docente. Come superare queste distanze?
Bisogna ri-comporre la catena spezzata della fiducia, che parte dalla scienza, passa per la politica e attraverso l’informazione arriva ai cittadini. Tutte le attività devono avere come obiettivo diretto e indiretto quello di migliorare l’empowerment dei cittadini. La corretta informazione e comunicazione possono fare molto per costruire la health litercy dei cittadini, migliorando così salute pubblica e sanità nel suo complesso. Soprattutto nel contesto attuale in cui la comunicazione/informazione/divulgazione in tema di sanità pubblica deve fare i conti con il caos dell’infosfera, attraversata da mediazioni/disintermediazioni/e più recenti apomediazioni dei social media. Oggi la conoscenza scientifica dei cittadini è molto bassa, anche perché viene trasmessa spesso in maniera fortemente strumentalizzata al fine di aumentare e/o abbassare la percezione del rischio; a questo si aggiunge il fatto che gli individui non si rivolgono al canale istituzionale per avere informazioni, ma utilizzano canali meno formali, ad esempio, internet o i social più in generale. A partire da queste specificità dell’attuale contesto culturale, è necessario potenziare l’utilizzo di nuove strategie informative/comunicative e divulgative, per favorire un coinvolgimento attivo dei cittadini. Il nuovo paradigma prevede un’idea di comunicazione scientifica come partecipazione, una discussione multidirezionale e, per queste caratteristiche, potenzialmente in grado di generare conflitti all’interno della sfera pubblica. È di fondamentale importanza che gli esperti della salute pubblica e gli operatori della comunicazione medico-scientifica costruiscano ogni intervento comunicativo nell’ottica della centralità del cittadino/paziente, per realizzare e ristabilire con questo un nuovo rapporto fiduciario.
“Il mondo dell’informazione sta cambiando. È un processo storico: o decidiamo di subirlo, oppure proviamo a governarlo”
Intervista a Massimo Barberi Consigliere e Responsabile Rapporti istituzionali UNAMSI
Massimo sei stato un deciso sostenitore di quest’accordo con la Sapienza Università di Roma. Quanto il tuo lavoro di publishing director ti ha convito del bisogno di un intervento per migliorare la qualità del giornalismo scientifico?
L’idea di scrivere un quadro di regole generali per chi si occupa di giornalismo scientifico nasce da una riflessione a più voci che abbiamo fatto dopo il successo dell’iniziativa Infodemia da COVID 19: cronache di un’emergenza mediatica, che si è tenuta nel mese di giugno 2021 alla Sapienza Università di Roma.
Nel periodo pandemico sono emersi, in modo a volte disastroso, tutti i limiti del giornalismo scientifico, italiano e non solo. Abbiamo quindi voluto fare tesoro di un evento catastrofico come la pandemia per ragionare sul futuro in termini positivi: impariamo dagli errori che abbiamo fatto come giornalisti e come mondo accademico per migliorare l’informazione scientifica degli anni a venire.
“Ripartire dall’informazione scientifica”, “Grande rigore nella verifica delle fonti”, “Deontologia ‘rafforzata’ per il giornalista che parla di medicina/salute”, “Maggiore dialogo fra mondo accademico e mondo dell’informazione”:sono questi i capisaldi del position paper in 10 punti che UNAMSI e il Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive di Sapienza Università di Roma hanno scritto e messo a disposizione del mondo dell’informazione. Non è un punto di arrivo, ma una riflessione sul ruolo che i giornalisti, il mondo accademico e i media possono svolgere per ripensare l’informazione scientifica del prossimo futuro. Perché, e di questo sono convinto, la divulgazione della scienza, in particolare quando si affrontano temi medici e sanitari, richiede l’adozione dei più alti standard qualitativi del giornalismo.
Al sesto punto del decalogo si chiede “più dati e meno storytelling”. Per chi come te si occupa di editoria scientifica l’adozione di questa indicazione potrebbe essere un problema. Perché non è così?
Questo è un punto importante, che ci ha visto discutere a lungo. Il dover “costruire una storia” invece che dare semplicemente una notizia è un must da almeno 20 anni. E non riguarda soltanto il giornalismo, pensiamo per esempio al mondo del marketing e dell’advertising. Lo “storytelling”, o “narrazione” se vogliamo usare la versione italiana che più vi si avvicina, lo troviamo ovunque.Il problema insorge quando il “raccontare una storia” sostituisce il racconto dei dati, quindi della realtà. Cioè quello che in UNAMSI chiamiamo giornalismo evidence based.
Ti faccio un esempio: durante i primi mesi della pandemia, quando di certezze ne avevamo poche o pochissime, non avendo a disposizione molti dati per raccontare quello che stava succedendo, molti colleghi hanno incominciato a raccontare storie. Storie di pazienti guariti, storie di parenti di malati che non ce l’hanno fatta. Storie di ricercatori bistrattati, storie di medici in prima linea. Storie, appunto. Che possono anche andare bene, a patto che non sostituiscano il racconto del progresso scientifico, che per definizione è basato sulle evidenze. C’è una tendenza all’abuso di questo format, che lo rende dominante su tutto il resto. Penso che sia una questione di “dosaggio”. Un po’ di storytelling ci sta, ma se c’è solo quello allora Houston, abbiamo un problema.
La tua domanda però “apre” un’altra domanda: perché, in generale, i giornalisti fanno così fatica a raccontare la scienza? Perché dobbiamo ricorrere allo storytelling (e talvolta ad abusarne) per spiegare una scoperta scientifica? Le ragioni sono probabilmente tante. Quella più importante, a mio avviso, è l’intrinseca difficoltà nel raccontare il progresso scientifico sui media. I nostri lettori vogliono (o meglio, sono abituati a ricevere) risposte chiare dai giornali. Il fumo provoca il cancro. La vitamina D fa bene alle ossa. Il colesterolo alto fa venire l’aterosclerosi. Ma per arrivare a queste conclusioni ci sono voluti decenni di ricerca da parte di migliaia di scienziati che hanno dedicato la loro vita per testare le ipotesi, ritestarle, confutarle, dimostrarle. E magari dover cominciare tutto da capo. Il problema è nostro, come giornalisti, non degli scienziati: cosa raccontiamo (vedi che lo storytelling viene sempre fuori?) ai nostri lettori quando le evidenze scientifiche intorno a un fenomeno non sono ancora consolidate? I tempi della ricerca scientifica sono lunghissimi, quelli dell’informazione sono ultra rapidi. Da qui probabilmente la necessità di ricondurre un fenomeno (se vuoi, una storia) all’interno di schemi mentali consolidati nel nostro lavoro: le notizie che scriviamo devono avere un inizio, dei personaggi “buoni”, dei personaggi “cattivi”, uno sviluppo e una fine.Meglio se positiva. Il risultato finale, tra storytelling e ricerca di risposte dal sapore manicheo, è che riduciamo in modo eccessivo la complessità della scienza, la addomestichiamo, la banalizziamo. Venendo meno al nostro dovere: la ricostruzione più fedele possibile della realtà e del mondo così come sono.
Quale sarà il futuro dell’editoria scientifica nel nostro Paese?
Impossibile prevedere cosa succederà nei prossimi anni, la confusione sotto il cielo è talmente alta, nell’editoria scientifica e nell’universo dell’informazione in generale, che ogni scenario è possibile.
Di sicuro stiamo vivendo un periodo caratterizzato da profonde trasformazioni, iniziato almeno 30 anni fa. Se nel 1990 scendevi in strada e chiedevi a un passante: cos’è un giornalista? La risposta era semplice. È uno che scrive su un giornale o lavora a un telegiornale. Al massimo in una radio. Cosa risponderebbe oggi lo stesso passante?
La situazione è molto più complessa. Per non farla troppo lunga, vorrei evitare di tirare in ballo in questa sede i classici perni attorno a cui queste discussioni di solito si snodano: i social media, gli influencer, i blogger, l’intelligenza artificiale e via discorrendo. Secondo me il punto è un altro: il mondo dell’informazione sta cambiando. È un processo storico: o decidiamo di subirlo, oppure proviamo a governarlo. Come? Nessuno ha la ricetta. Ma un punto di partenza vorrei proporlo alla discussione dei colleghi: riportiamo al centro dell’informazione il rigore nella verifica delle fonti. Perché una delle cose che l’esperienza pandemica ci ha insegnato è l’importanza di ragionare in termini di evidence based journalism. Che cosa significa? Significa che ogni notizia deve basarsi su fonti autorevoli, cioèstudi pubblicati. Ma attenzione: un solo articolo scientifico non è una verità assoluta anche se pubblicato da una rivista scientifica “autorevole” o “prestigiosa”.Prima di dare una notizia il giornalista deve documentarsi sullo stato dell’arte della ricerca nel settore che si vuole raccontare, in modo da poter inquadrare il messaggio all’interno di un contesto più ampio.