UNAMSI alla scoperta del mito di Teodolinda

Un gruppo di soci ha potuto ammirare ‘da vicino’ i dipinti della cappella degli Zavattari restaurata, nel Duomo di Monza, prima che venissero smontati i ponteggi – Restauri con laser, nanotecnologie e batteri

MONZA – “Osserva, tu che passi, come i volti appaiano vivi / e quasi respirino, e come i gesti corrispondano in tutto alle parole / ….” Una iscrizione in latino, nella scena XXXII delle 45 che compongono il fastoso ciclo pittorico dedicato alle vicende di Teodolinda, regina dei Longobardi, il cui significato i colleghi dell’UNAMSI, hanno potuto verificare con i propri occhi, il 27 aprile scorso, durante una visita promossa dalla nostra associazione alla appena restaurata cappella nel Duomo di Monza, nella quale è anche conservata la ‘Corona Ferrea’.
Questa cappella rappresenta uno dei capolavori della pittura gotica in Italia; le 45 scene, sviluppate su una superficie di 500 metri quadri in cinque registri sovrapposti, furono dipinte tra il 1441 e il 1446 dagli Zavattari, celebre famiglia di pittori attivi all’epoca a Milano e in Lombardia, e narrano la storia della Regina Teodolinda secondo i resoconti storici di Paolo Diacono e di Bonincontro Morigia.
La visita dell’UNAMSI a questo capolavoro del ‘400 è stata l’ultima possibile prima che i ponteggi del restauro venissero smontati: quindi è stato dato modo ai colleghi di ammirare da vicino l’opera d’arte, esaminando a non più di un metro di distanza anche le scene eseguite in alto, le più vicine alla volta della cappella.

La storia narrata nella cappella
Cominciando dall’alto, le scene narrano che verso la fine del VI secolo il re dei Longobardi Autari mandò i suoi inviati in vari regni d’Europa a cercare una degna consorte, trovata infine in Teodolinda, figlia di Garibaldo, Re di Bavaria. E come in una sequenza da film con un cast di personaggi principali e di comparse (tutti abbigliati alla moda del ‘400) i riquadri seguenti raccontano la storia della Regina, dall’incoronazione alla morte di Autari, alla ricerca di un nuovo consorte cui affidare le sorti del regno, al matrimonio con Agilulfo, duca di Torino (questo ‘banchetto di nozze’ è raffigurato nella foto sotto il titolo, autore Piero Pozzi ©Museo e Tesoro del Duomo di Monza) che per lei rinnega l’arianesimo. Dopo il sogno della colomba dello Spirito Santo che le indica il luogo adatto, Teodolinda pone la prima pietra del Duomo di Monza. E nelle scene successive: la morte della Regina, l’arrivo nel 663 dell’Imperatore Costante per scacciare i Longobardi e, dopo una profezia, la sua ripartenza dall’Italia senza combattere.
La scenografia è di grande impatto emotivo: la bellezza del capolavoro è amplificata dal complesso dei procedimenti utilizzati dagli Zavattari, nel quale convivono tecniche diverse. Le pitture quasi interamente eseguite con colori stemperati in sostanze organiche, le decorazioni a rilievo, le dorature in foglia e pastiglia esaltano l’esuberanza cromatica, e – proprio come dice l’iscrizione della XXXII scena, che è anche la ‘firma’ degli Zavattari, sembra che “… i volti appaiano vivi / e quasi respirino, e come i gesti corrispondano in tutto alle parole / ….”.

I restauri con laser, nanotecnologie e batteri
Queste tecniche però hanno contribuito, insieme ai danni causati dall’umidità, dal nero fumo e da alcuni restauri precedenti, a far sì che la Cappella versasse in condizioni davvero critiche. Dopo le indagini scientifiche preliminari, nel 2009, la Fondazione Gaiani – ente di gestione del Duomo di Monza – ha affidato l’imponente lavoro di restauro alla società Anna Lucchini Restauri srl.
E i giornalisti dell’UNAMSI hanno avuto l’opportunità esclusiva di apprezzare i frammenti recuperati, l’oro e l’argento, le lacche rosse e i verdi, la raffinatezza dei damaschi delle vesti, le singole espressioni degli oltre 800 personaggi e la regalità riacquistata di Teodolinda, grazie ad un complesso restauro che ha visto abilmente protagoniste sia tecniche tradizionali di intervento sia metodologie nuove e all’avanguardia, studiate apposta solo per queste pitture, come il laser e le nano tecnologie, ma anche l’utilizzo di batteri che hanno letteralmente ‘mangiato’ lo strato di nerofumo (causato dalle candele) che aveva oscurato i dipinti delle parti più basse della cappella.
Anche l’illuminazione è stata ripensata con tecniche modernissime, utilizzando i Led. E il visitatore potrà valutare, attraverso una particolare configurazione, anche un effetto luminoso identico a quello generato dalle candele nel 1400, ma senza naturalmente provocare i danni del nerofumo.

Due parole sulle ragioni ‘politiche’ dell’opera, al tempo dei Visconti
Anche se committente ufficiale fu l’arciprete Battista Bossi, i grandi stemmi dipinti sulle pareti rimandano al Duca regnante, Filippo Maria (1412-1447), ultimo discendente della famiglia Visconti, il quale aveva evidentemente bisogno di far valere la trasmissione del potere ducale dalla figlia Bianca Maria al genero Francesco Sforza. E chi meglio della Regina Teodolinda, che trasmise il potere regnante al secondo marito Agilulfo, avrebbe potuto essere migliore esempio?