Pacemaker e defibrillatori a monitoraggio remoto continuo abbassano la mortalità dei 38%, ma il Sistema Sanitario Nazionale non prevede ancora i rimborsi dei controlli cardiologici a distanza
MILANO – Immaginate di avere a disposizione una supercar ma di dover girare col freno a mano tirato. Che delusione. E quanto inutile spreco di tecnologia. E’ una metafora, certo, ma ben rappresenta la situazione sanitaria italiana relativa ai moderni dispositivi cardiaci impiantabili a monitoraggio remoto. Il freno a mano è dato dal fatto che il controllo a distanza del paziente non viene rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale. Oggi i costi, infatti, rimangono tutti sulle spalle dell’industria che produce i device e dell’ospedale che li gestisce.
Così la diffusione di questi modernissimi dispositivi salvavita resta “frenata” dalla spesa. Su circa 800mila pazienti con defibrillatore o pacemaker impiantato, in Italia solo 150mila vengono seguiti con il controllo remoto. Il dato è emerso dal 50esimo Convegno di Cardiologia svoltosi a Milano.
I pacemaker che parlano al medico
Ma spieghiamo con ordine. I dispositivi cardiaci impiantabili a monitoraggio remoto sono quei minuscoli strumenti (pacemaker e defibrillatori) che vengono impiantati ai cardiopatici per evitare gli arresti cardiaci, le fibrillazioni e così via. Il loro compito è quindi quello fondamentale di “salvare la vita” al paziente.
Oggi, i device più all’avanguardia sono quelli che “parlano” al medico in modo continuo 24 ore su 24 e quindi permettono di fare diagnosi precoce e di intervenire con una terapia immediata quando i valori misurati dallo strumento mostrano un peggioramento dei parametri clinici del paziente.
Vediamo come fanno. “Il dispositivo cardiaco che viene impiantato al paziente – spiega Gianluca Botto, responsabile Unità di Elettrofisiologia Cardiaca ospedale S. Anna di Como – è dotato di una microscopica antenna che invia tutti i segnali rilevati (frequenza dei battiti, rallentamenti, aritmie ecc.) a una sorta di “telefonino” che il cardiopatico può tenere in tasca. Questo trasmettitore intelligente (Cardio Messenger Smart) invia in tempo reale, attraverso la rete GSM, i dati a una centrale operativa ospedaliera. Un “cervellone” elabora automaticamente le informazioni e le organizza in grafici e tabelle di facile consultazione per gli operatori sanitari. In questo modo il medico può controllare al computer, in qualunque momento del giorno e della notte, il quadro clinico aggiornato del paziente e la tendenza dei vari parametri fisici. Questo permette, in caso di necessità, di intervenire prontamente e fare prevenzione farmacologica immediata”. Altra cosa sono i device con monitoraggio remoto settimanale, che invece si sono rivelati inadeguati per attuare efficaci interventi di prevenzione.
Le evidenze scientifiche
“Il monitoraggio remoto continuo offre grandi vantaggi – afferma Leonardo Calò, direttore Cardiologia Policlinico Casilino di Roma -: oltre a individuare precocemente le situazioni di criticità cliniche del paziente, come per esempio la fibrillazione atriale, permette di prevedere e prevenire anche i problemi tecnici dell’impianto. Per esempio, un aumento dell’impedenza di un catetere, rilevato dal sistema di controllo elettronico, può avvisare del rischio di rottura del catetere stesso”.
E tutto ciò è stato accertato da evidenze scientifiche. Lo spiega Maurizio Lunati, direttore Cardiologia 3, ospedale Ca’ Granda Niguarda di Milano: “Una metanalisi che ha analizzato una popolazione di 2.405 pazienti arruolati negli studi TRUST, ECOST e IN-TIME ha evidenziato che l’impiego del monitoraggio remoto continuo è associato a un calo della mortalità nell’arco di un anno del 38%. Lo studio è stato presentato al congresso dell’European Society of Cardiology (ESC) 2016, dal professor Gerhard Hindricks del Leipzig Heart Center (Germania). La meta-analisi mostra chiaramente che il tipo di sistema di monitoraggio remoto utilizzato è importante. Le trasmissioni giornaliere, insieme all’analisi multiparametrica e a un flusso di lavoro clinico consolidato, forniscono al medico il più solido insieme di dati possibile per intervenire precocemente. E’ questa la differenza che può salvare la vita”.
Meno shock, più salute
Accertato che i dispositivi cardiaci impiantabili servono per salvare vite, vediamo come funzionano. Il pacemaker segue il battito cardiaco e, quando la frequenza si abbassa, è in grado di erogare un impulso elettrico che aiuta il cuore a “stare sveglio” allontanando il rischio di arresto cardiaco. Il defibrillatore, invece, (che funziona anche da pacemaker) interviene quando la frequenza cardiaca aumenta in modo irregolare. Nei casi di tachicardia ventricolare, il dispositivo elettronico impiantato risolve il problema senza che il paziente se ne accorga inviando al cuore degli impulsi che placano la tachicardia. Quando invece il problema è più grave (aritmia refrattaria) e non rientra col semplice invio degli impulsi, il defibrillatore eroga uno shock elettrico: una scarica che “resetta” l’attività del cuore. La scarica viene avvertita dal paziente come una botta violenta al torace. Ebbene, il monitoraggio remoto continuo permette di prevenire e quindi di ridurre anche la necessità di questi shock dannosi all’organismo. Risultano ridotte, di conseguenza, anche le ospedalizzazioni di controllo cui devono sottoporsi i pazienti dopo la scarica elettrica.
Maurizio Maria Fossati