“Avevo solo 16 anni”, l’articolo di Edoardo Rosati che ha avuto la ‘Menzione Speciale’ al Premio giornalistico Alan Pampallona

Dedicato al “sempre delicato (e problematico) dialogo tra pazienti e camici bianchi”, l’articolo fotografa l’attività all’interno del “Progetto Giovani” rivolta agli adolescenti in cura presso la Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

I complimenti di UNAMSI al collega associato Edoardo Rosati, per la ‘Menzione Speciale’ che il presidente della Giuria del “Premio Giornalistico Alan Pampallona”, Ferruccio De Bortoli, ha assegnato alsuo articolo intitolato “Avevo solo 16 anni”, pubblicato sul suo blog ‘MedicMoments – Viaggi tra le parole e i racconti della Medicina’ (https://www.edoardorosati.info/).

 Il concorso, alla sua prima edizione, è stato indetto dalla ‘Fondazione Giancarlo Quarta Onlus’, che opera da circa 20 anni per migliorare la relazione medico-paziente e formulare in questo ambito modalità didattiche originali e di particolare efficacia. Quello della relazione medico-paziente è del resto tema caro a Rosati, che ha costruito il suo blog proprio per “dedicare qualche pacata riflessione – sono parole sue – a ‘vizi & virtù’ della comunicazione medico-scientifica e del sempre delicato (e problematico) dialogo tra pazienti e camici bianchi”. L’articolo che ha avuto la Menzione Speciale è in pratica un resoconto che fotografa l’attività all’interno del “Progetto Giovani” rivolta agli adolescenti in cura presso la Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Qui i giovani pazienti “possono contare – scrive Rosati nel suo articolo –su una comfort zone in cui diventa possibile sfogare il personale estro più o meno recondito”. Ed è una realtà straordinaria, tanto che già “la coscienza di appartenere a un progetto, artistico e di vita, è una medicina potente”.

Ma ecco qui l’intero articolo di Edoardo Rosati, perché vale la pena di leggerlo:

«Avevo solo 16 anni»

I malati sono libri. Che chiedono di essere letti con passione.

Dev’essere stata anche la consapevolezza di questa verità a spingere un manipolo di camici bianchi, capitanato dal vulcanico dottor Andrea Ferrari, a creare un solido riparo per gli adolescenti malati di cancro.

Si chiama Progetto Giovani, questo approdo. Una palpitante realtà fondata da Ferrari nel 2011 all’interno della Pediatria oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ─ diretta dalla dottoressa Maura Massimino ─ col supporto dell’Associazione Bianca Garavaglia (sorta in nome di Bianca, una bimba di cinque anni scomparsa per una rara forma di neoplasia).

La mission del Progetto Giovani? Assicurare l’accesso ai giusti protocolli clinici e l’eccellenza delle cure. Già, perché il drammatico scenario attuale è che questi ragazzi continuano a rappresentare una “terra di mezzo” tra l’oncologia pediatrica e quella dell’adulto.

Ci spieghiamo. Oggi esistono codificati percorsi di cura per i tumori dei bimbi e per quelli dell’età matura, sì, ma… per gli adolescenti? Costoro, impotenti abitanti di una no man’sland, corrono il rischio di giungere con difficoltà o in ritardo nei Centri idonei di riferimento a causa della dannata ambiguità della loro malattia. Di non ricevere i trattamenti migliori e specifici. Tanto per capirsi: un adolescente ha meno chance di guarire rispetto a un bambino affetto dal medesimo tumore maligno.

Il cancro ogni anno coinvolge 800 ragazzi italiani, fra i 15 e i 19 anni. Ma anche tra mille e 2 mila persone nella fascia d’età 20-29. Nel complesso, 20 mila individui in Europa. Le neoplasie del sangue sono le più frequenti, con le leucemie che costituiscono circa un terzo di tutte le forme tumorali. Poi, tra i cosiddetti tumori solidi (che non riguardano, cioè, le cellule sanguigne) prevalgono quelli cerebrali e a seguire figurano i sarcomi delle parti molli e dell’osso. Ora, tutte queste forme neoplastiche sono tipiche dell’infanzia ma possono colpire pure adolescenti e giovani adulti. Ecco perché c’è bisogno di una task force capace di maneggiare con sapienza questo sfuggente cubo di Rubik. E di rispedire nello sgabuzzino ─ e pure alla svelta ─ il Babau entrato a gamba tesa nel mondo di questi ragazzi.

Ma qui, sotto il tetto del Progetto Giovanni, non ci si limita a garantire terapie ultramirate. Si cura il corpo, certo, ma anche le corde sottili dello spirito. Già, perché quando ci si ammala proprio nel momento più esplosivo dell’esistenza, in quell’età così magicamente tumultuosa che è l’adolescenza, le terapie “fisiche” non bastano. C’è pure bisogno di consentire a un giovane alle prese con la malignità di un tumore di esternare in qualche modo la rabbia sacrosanta, le paure, l’angoscia, gli interrogativi laceranti (Perché proprio a me?) e le speranze che si agitano in profondità.

Ecco, il Progetto Giovani nasce proprio con questa duplice visione: «Da un lato, assicurare ai ragazzi l’accesso alle strategie terapeutiche studiate rigorosamente per loro, e, dall’altro, offrire un luogo protetto dove chi è in trattamento possa continuare a esprimere le proprie passioni, l’amicizia, lo sport, la musica», interviene il dottor Andrea Ferrari.

«Questo lavorare tutti assieme, noi e i medici, è semplicemente meraviglioso», dice Isabella, in cura per un osteosarcoma.

Il Progetto Giovani ha radicalmente rinnovato il concetto di terapia, realizzando in reparto, proprio a fianco delle stanze di degenza, delle salette multifunzionali. Un habitat unico, una sorta di club esclusivo, per ritrovarsi con i compagni di viaggio, confidarsi, abbracciarsi, ridere, prendersi in giro, ricevere calorose pacche sulle spalle, avere qualcuno su cui contare, trasmettersi reciprocamente l’energia necessaria per non mollare e… sì, anche versare qualche sana lacrima.

Lorenzo, in terapia per un tumore cerebrale: «Per me il Progetto Giovani è entrare in questa stanza e… non aver bisogno d’altro».

Ma qui si crea anche.I ragazzi forgiano con l’immaginazione originali percorsi per raccontarsi. Tra una seduta di chemio e l’altra, infatti, gli adolescenti del Progetto Giovani sfornano saporitissimi frutti artistici. E l’elenco dei traguardi comincia a essere davvero ragguardevole: la video-canzone Palle di Natale, una strabiliante hit virale (su YouTube ha collezionato oltre 17 milioni di visualizzazioni); il fumetto Loop – Indietro non si torna (pubblicato da Rizzoli Lizard, in cui gli adolescenti ricoverati si trasformano in “supereroi con super problemi”, proprio come nei comics della Marvel); la mostra fotografica Ri-Scatti (allestita al PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea, di Milano); il calendario fotografico YOUth 2021, elaborato tra maggio e settembre 2020 e dunque nel cuore della pandemia; i Tumorial(video-tutorial pensati per aiutare un giovane ad affrontare la diagnosi di cancro); il podcast Tratto da una storia vera(coordinato dall’attore e regista teatrale Gianfelice Facchetti).

Di più: i pensieri e le confessioni racchiusi in quest’ultimo contenitore hanno consentito di costruire il testo di un brano musicale nuovo di zecca, struggente e poetico, di recente lanciato sulle piattaforme di streaming, I wasonlysixteen(“Avevo solo 16 anni”), che ha addirittura arruolato due formidabili artisti: Faso, il bassista del gruppo Elio e le Storie Tese e Tony Hadley, ex frontman degli Spandau Ballet nonché icona della musica pop mondiale. Un piccolo-grande sogno che la tracimante forza di volontà del Progetto Giovani ha reso tangibile. «Sì, sono iniziative che ti fanno tornare la voglia di essere… belli!», esclama Martina, approdata qui per un rabdomiosarcoma.

In una potente sintesi: i giovani pazienti, accanto all’eccellenza dei trattamenti specialistici e al sempre prezioso supporto psicologico, possono contare su una comfort zone in cui diventa possibile sfogare il personale estro più o meno recondito. Ogni manifestazione creativa del Progetto Giovani (leggi: la scelta del tema e del territorio in cui muoversi) scaturisce dai ragazzi. E La coscienza di appartenere a un progetto, artistico e di vita, è una medicina potente. Ma c’è dell’altro, in questa pur forte constatazione. Lo spiega egregiamente il dottor Andrea Ferrari:

«Le strette interazioni che si stabiliscono tra questi giovani e i camici bianchi consentono ai care givers di entrare in sintonia con la prospettiva profonda dei pazienti e di rendere il cammino terapeutico un’esperienza autenticamente condivisa».

Il concetto, in buona sostanza, è il seguente: gli adolescenti del Progetto Giovani, quando hanno l’occasione ─ in seno a questo inatteso nucleo di relazioni amicali ─ di comporre melodie, cantare, fotografare, recitare o architettare trame fumettistiche, be’… finiscono per schiudere angoli riposti del loro universo interiore. Per rivelare pagine intime della loro esistenza. E ciò, per i curanti, è un privilegio formidabile, perché significa avere l’opportunità di addentrarsi in percorsi e sentieri assolutamente personali. E stabilire legami inimmaginabili, che rinsaldano quel cruciale patto di fiducia sancito nel momento in cui il ragazzo si affida alle cure del dottore (il quale di primo acchito ─ non scordiamocelo ─ gli appare come un perfetto estraneo, e per di più autoritario, visto che di punto in bianco afferra la cloche della sua vita: si annulla la sensazione di essere artefici del proprio destino e ci si deve giocoforza mettere nelle mani di un altro).

E allora succede qualcosa di veramente magico: il tanto agognato “dialogo medico-paziente” trova qui nuove espressioni. Declinazioni singolari e costruttive. Diventa un albero che cresce. Le poliedriche manifestazioni artistiche dei ragazzi portano calore e colore nell’ospedale e nel contempo entrano a far parte integrante del viaggio terapeutico. E in questo tragitto all’insegna dell’inventiva, i lucchetti all’interno della personalità di ogni individuo si sciolgono.

«Riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare le storie della malattia: tutto questo aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia della cura». Parole della professoressa Rita Charon, della Columbia University di New York, la fondatrice della Medicina Narrativa, corrente che nasce proprio per sollecitare una più spiccata e sentita centralità del paziente nei percorsi di assistenza e cura.

Gli iter artistici battuti dal Progetto Giovani altro non sono, in definitiva, che modalità solari per narrare se stessi e il cancro. Per consentire ai ragazzi di comunicare, con voce unisona, perfetta coordinazione emotiva, istantanea unità di intenti.Comunicare, intendiamo, nel senso pienamente sociale del termine, dal verbo latino communicare, «mettere in comune»: composto da cum, «insieme», e munus, che vuol dire «dovere, funzione», ma anche, guarda un po’, «dono, regalo». Ovvero: la comunicazione è una funzione e un tesoro sociale. Pone un valore a disposizione degli altri, che diventa patrimonio comune. Per costruire una discussione, un sapere e una cultura. E anche una superiore sensibilità.

Lo staff di specialisti che opera all’interno del Progetto Giovani lo ha compreso perfettamente: attraverso la creatività i ragazzi comunicano. E comunicando trasformano se stessi. Ma nello stesso tempo forniscono ai sanitari chiavi preziose per interloquire e ottimizzare la gestione terapeutica. Il filosofo e sociologo francese Michel Foucault parla di «tecnologia del sé».

«Le tecnologie del sé permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima (dai pensieri al comportamento e al modo di essere) e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione.»

Parole che sembrano descrivere con puntualità la filosofia che vige negli ambienti del Progetto Giovani. Qui la creatività rinvigorisce il sentimento di valere e la facoltà di poter incidere sulla realtà in modi riconoscibili e fruibili dagli altri, a dispetto di quella morsa che si chiama Cancro: è lo strumento principe per superare i limiti imposti dalla malattia. Ferrari rincara il concetto: «Cerchiamo di offrire ai nostri ragazzi risorse inedite per esprimere il complicato momento che stanno vivendo e per reinventare in qualche modo la loro quotidianità. Un obiettivo che perseguiamo con progetti che durano tanti mesi e che quindi infondono, come dire, il senso di un futuro, di un orizzonte, di un domani possibile, anche se decisamente “diverso”. Favorire l’“esperienza della bellezza” consente di alimentare la fiducia in mezzo all’angoscia nera della patologia».

Ne beneficiano gli adolescenti in cura, ma anche il curante.

«Quando una di queste malattie insidia, senza un perché, il corpo di un bambino o di un adolescente, arriva ogni volta il momento di sfoderare non solo tutto il tuo sapere, ma anche il cuore, perché sai che dovrai affiancare, nei panni di un amico fidato e non come un freddo camice bianco, un giovane impaurito, vulnerabile, fragile». Che magari avrebbe voluto volare e mordere il mondo e al quale invece gli sono state strappate le ali. «Ebbene, ai colleghi medici, io chiedo di “sentire”, sempre e visceralmente, questo cruciale momento».

Un appello, quello del dottor Ferrari, che, come polline nel vento, sta rivelandosi fecondo: molti reparti italiani di oncologia pediatrica, alla luce del virtuoso esempio del Progetto Giovani, hanno cominciato a ritoccare i limiti di età per permettere l’accesso a chi si ritrova nella famigerata “terra di mezzo”, a cavallo tra l’età infantile e quella adulta.

E mica è finita: questo innovativo approccio, che vede a braccetto “cure giuste & palestra dell’anima”, ha galvanizzato l’attenzione della comunità medica mondiale, perché le storie dei ragazzi diventano periodicamente oggetto di veri e propri report scientifici, diffusi su autorevolissime riviste, dal Journal of ClinicalOncology a Lancet Oncology, da The Journal of MedicalHumanities a Pediatric Blood & Cancer.

Dalla consapevolezza della malattia non si scappa. Ma reagire si può. Eccome se si può. Non è forte chi non cade mai, sentenziò Goethe, ma colui che cadendo ha la forza di rialzarsi. Anzi, è proprio da questa piena (e non facile) presa di coscienza che deve derivare l’animo di risollevarsi. Di mettersi addosso un’invisibile calzamaglia e sfoderare il più grande e bello dei super poteri: la voglia incoercibile di vivere.