Il silenzio assordante sulla salute mentale

Quinto incontro organizzato da Onda, l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna, e Unamsi nell’ambito del ciclo “Donne e salute”, valido per la formazione professionale continua dei giornalisti. Relatori: Nicoletta Orthmann, coordinatore medico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna; Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria e Ovidio Brignoli, vice-presidente della Società di Medicina Generale. La testimonianza della sorella di un malato

MILANO – La sofferenza mentale è ancora un tabù: non se ne parla, e quando lo si fa se ne prendono le distanze. Mentre ci si ammala di morbillo o di tumore, nella depressione spesso “si cade” o “si entra”: “È caduto in depressione, è entrata nel tunnel della depressione”. Come se fosse il risultato di un’imperdonabile distrazione o di una consapevole scelta. Modi di dire tra i tanti, che però sottolineano un esorcismo, una presa di distanza, la possibilità di tenersene alla larga.

Nei giornali femminili però di depressione si parla molto. La depressione è l’equivalente per la mente di quello che il tumore al seno è per l’oncologia: richiama l’attenzione perché è una patologia che colpisce molto le donne. Si parla molto meno del disturbo bipolare, dei disturbi ossessivo-compulsivi, dei disturbi di personalità o delle psicosi gravi, come la schizofrenia. Ma anche il grande capitolo delle demenze raramente trova spazio tra le pagine dedicate a moda e bellezza.
La salute – o più esattamente la malattia mentale – ha più “appeal” nelle pagine di cronaca nera o giudiziaria di quotidiani e Tg. E consentitemi di dire purtroppo, perché di essa si occupano, o sono convinti occuparsi, colleghi che non scrivono di medicina, ma di cronaca appunto. E così spesso leggiamo titoli come “Folle di gelosia uccide la fidanzata” o “Pazzo spara sulla folla”. Oppure scopriamo che l’omicida “aveva in casa dei tranquillanti” o che “soffriva da anni di depressione”.
Un atto criminale viene collegato alla salute mentale, e anche se 99 per cento delle volte l’omicida viene valutato dagli esperti perfettamente in grado di intendere e di volere, e quindi sanissimo di mente, la frittata comunicativa è fatta e lo stigma confermato.

La responsabilità del giornalista
Noi giornalisti, che lavoriamo con le parole e non con le terapie mediche, dovremmo pensare più spesso che le parole non solo descrivono i fenomeni, ma possono anche contribuire a determinarli.
Ma torniamo al silenzio. Il silenzio in cui sono immersi i pazienti alle prese con la sofferenza mentale, spesso lasciati a se stessi anche dalle istituzioni sanitarie, perché le risorse sono quelle che sono e in Italia l’assistenza medica-ospedaliera continua a essere a macchia di leopardo nelle varie regioni, con punte di eccellenza e deserti di disperazione. Con il risultato che solo il 34,3 per cento dei malati assume antidepressivi, secondo l’ultimo Rapporto OsMed sull’uso dei farmaci.

Troppe persone vivono isolate
Ancora oggi troppe persone non chiedono aiuto a nessuno. Con conseguenze gravissime: chi soffre di depressione ha un rischio di suicidio trenta volte superiore a quello della popolazione generale.
E il silenzio che circonda i caregiver, che spesso devono gestire da soli persone care assolutamente ingestibili. E anche per loro le conseguenze sono pesanti. Secondo Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la medicina nel 2009, i caregiver sottoposti allo stress di curare familiari gravi hanno un’aspettativa di vita ridotta dai 9 ai 17 anni. Oltre il 70 per cento delle famiglie non parla dei disturbi mentali. Non è riservatezza, è vergogna.
La malattia mentale è una malattia con ampie basi biologiche ed è tra le prime cause di disabilità. Ma lo stigma morale fa sì che non sia una malattia come tutte le altre. Eppure le persone che ne sono affette se seguite precocemente e adeguatamente possono vivere come le altre: tutte le patologie psichiche sono curabili e molte sono guaribili.
Ma per capire meglio, riportiamo la testimonianza di una donna che da un paio d’anni si è trovata a dover seguire il fratello maggiore, affetto da una malattia mentale. Una donna costretta a dover vivere così in prima persona la gestione della patologia, la sofferenza che ne consegue, la solitudine. E il silenzio assordante che le circonda.

La testimonianza: mio fratello ha sempre 12 anni
Il mio racconto parte da quello che sembrava un punto di non ritorno, quando è morta mia madre, seguendo mio padre che se ne era già andato 13 anni prima.
La mia eredità è stata un fardello di 130 Kg, frutto di tante scelte e decisioni da me non condivise, in balia di dipendenze pesanti: nicotina (4 pacchetti di sigarette al giorno), glucosio (anche due barattoli di quelle caramelle svizzere che sono dei tocchi di zucchero), fame notturna placata con brioche, cioccolato, biscotti, patatine, vaschette di gelato (ma ai pasti mangia pochissimo) e non ultimo alcool, sotto forma di birra in lattina da 500 ml (una al pasto e poi ancor, se mi viene sete). Il tutto condito da una trascuratezza nell’igiene personale francamente imbarazzante e da una volontà di non cambiare una virgola delle abitudini incancrenite da anni.
Le risposte a tutto ciò che ho ricevuto da coloro che lo hanno via via seguito passandosi il testimone sono state, nell’ordine:
1) Auguri
2) Il mio compito è quello di prescrivere la terapia, il resto sono fatti suoi
3) Eh così non va bene, bisogna perdere peso, ridurre tutti questi eccessi…, Ma proprio non ce la fa?
4) Sono tutte conseguenze inevitabili della terapia, purtroppo potrà solo peggiorare.
Dopo un primo momento di totale smarrimento, non ho voluto arrendermi alla ineluttabilità degli eventi, alla lusinga di un ricovero in un mitico “Istituto” panacea di tutti i mali.
Non ho cercato su internet informazioni. Mi sono invece impegnata nella rieducazione, spendendo gran parte delle mie energie, aiutata da mio marito, da alcuni parenti, da amici comprensivi. Senza il loro aiuto non ce l’avrei fatta.
Il mio obiettivo è stato quello di riuscire a renderlo almeno in parte indipendente e capace di vivere da solo.
Il punto di partenza è stato per me accettare la sua malattia, capire quando le sue angosce erano vere e quando no, rispondere sempre alle sue telefonate – anche 20 volte al giorno -, dimenticare il suo modo di vestire, non far caso alla bicicletta in salotto insieme al compressore “perché in garage potrebbero rubarli” e a molte altre stranezze.
Il piano di rieducazione è stato duro, forse più per me: convincerlo a frequentare almeno 3 volte alla settimana il CPS (struttura che lo ha e lo sta aiutando molto), cercare di diminuire le dipendenze, cercare sistemi per lasciargli autonomia col denaro e al tempo stesso evitare che lo sperperi. Per ottenere risultati, ho dovuto minacciare di non aiutarlo più a districarsi con bollette, tasse, spese di condominio: il labirinto della burocrazia lo terrorizza più di ogni altra cosa.
Il mio aiuto e il mio affetto per la totale astinenza dalla birra.
Il mio aiuto e il mio affetto per la totale astinenza dalle caramelle.
Un punto a suo favore, invece, è che è buono e tenero, un gigante col cuore da bambino.
Adesso le sigarette sono “somministrate” ogni ventiquattro ore, nella dispensa ha tutto misurato tranne frutta e verdura che servono per tappare i buchi e aumentare il volume dei pasti che gli cucino giorno per giorno. Col tacito accordo che qualcosa se finisce prima del previsto, resta senza.
La spesa si fa sempre insieme, lottando quasi a ogni reparto. Ogni tanto si offende e se ne va. Lo ritrovo nel reparto dei giochi, incantato come un bimbo: «Ma se rinuncio al gelato e al cioccolato, compriamo questo modellino d’auto che mi manca?».
E come faccio a dirgli di no?

di Mariateresa Truncellito